La relazione del segretario al Consiglio Nazionale/Sullo sfondo il Congresso

Il Pri per governare la complessità

di Francesco Nucara

Il mondo che uscirà da questa crisi sarà profondamente diverso da quello che abbiamo fino ad oggi conosciuto. Cambieranno gli equilibri di potere tra i diversi continenti ed i diversi paesi. Popoli, fino a ieri emarginati o chiusi nei loro ghetti ideologici, vorranno dire la loro e partecipare pienamente a determinare gli indirizzi generali. Nazioni egemoni, come gli Stati Uniti, saranno inevitabilmente costrette verso forme di multilateralismo, che peraltro hanno caratterizzato la loro storia fino alla tragedia dell'11 settembre. L'Europa deve mettersi in grado di essere partecipe di questo processo, rafforzando la sua unità, migliorando le sue istituzioni, formulando le sue proposte.

Al centro dell'iniziativa europea deve rimanere il rapporto con gli Stati Uniti. E' questo il modo per ancorare gli americani ad una effettiva strategia multilaterale da una parte e per assicurare a questa strategia una forte connotazione occidentale dall'altra. Europa e Stati Uniti dovranno definire – non appena si sarà insediata la nuova presidenza – le linee guida di questa strategia ed aprirsi al confronto con gli altri interlocutori: in primo luogo le potenze emergenti, la Russia, il mondo arabo.

Solo da una rinnovata solidarietà atlantica, peraltro, potrà emergere una spinta reale sia verso la stabilizzazione della situazione economico – finanziaria internazionale sia verso una diffusione di quei valori di libertà e democrazia che sono il prodotto più alto della civiltà e della cultura occidentale.

Dimenticare il vecchio

Il secondo grande cambiamento che la crisi determinerà sarà all'interno di ciascuno Stato. Le vecchie pratiche dovranno essere dimenticate. Occorrerà individuare nuove regole di condotta e tecniche di governo coerenti con i cambiamenti determinati dall'evolversi della crisi. Se c'è un tratto comune che unificherà i due momenti – quello internazionale e quello interno – esso è dato dalla categoria della "complessità". A questa si dovrà ricorrere per trovare le più giuste mediazioni tra i diversi interessi che compongono l'economia internazionale. E lo stesso dovrà farsi per individuare nella "cassetta degli attrezzi" – l'espressione è di Angela Merkel – lo strumento più utile per affrontare i relativi problemi.

Il passato, in questo, ci aiuta poco. Per un verso, si è esaurito il ciclo politico avviato dalla Thatcher e da Reagan, che peraltro ha assicurato un lungo periodo di crescita e una diffusione del benessere al di là dei suoi tradizionali confini. Per altro verso, sarebbe un errore tornare alle suggestioni degli anni '70 ed '80. Quell'esperienza è morta e sepolta. E' morta sulla sponda della stagflation, della crescita del debito pubblico, delle indicizzazioni senza regole che rendevano permanente lo sviluppo del processo inflazionistico. Non è più compatibile con il mondo multipolare e competitivo che uscirà dalla crisi.

Questi concetti vanno sottolineati con forza. Sono in molti, specie nella sinistra radicale, che stanno vivendo questa crisi come una rivincita. Rivincita contro il mercato. Rivincita contro la globalizzazione. Rivincita contro lo smantellamento non dello Stato sociale – che, almeno in Italia, è rimasto intatto nelle sue strutture portanti – ma del dirigismo di quegli anni. Quando tutto era governato dalla politica. Quando le autonomie dei corpi intermedi – che sono l'essenza della società civile ed il presidio di ogni libertà - erano precluse. Se ripristinassimo quei vincoli, la competizione internazionale, che è destinata a rafforzarsi e non certo ad indebolirsi, ci spazzerebbe via. Ed il declino, che pure si avverte nella società italiana, diverrebbe irreversibile.

Nuova sintesi

La soluzione sta in una nuova sintesi tra "Stato" e "mercato". Il primo quando è necessario, il secondo quando è possibile. Ma è uno Stato diverso quello a cui pensiamo. Non è lo Stato postino, com'era negli anni che ho richiamato. E' lo Stato che ha nelle mani le redini del Paese. Che è capace di tracciare la rotta e di intervenire se cambiano le condizioni del mare. Pensiamo quindi ad una struttura di eccellenza, non ad una postazione che riduce tutto alla semplice attività amministrativa: con i suoi tempi, le sue lentezze, le inutili e ridondanti complicazioni burocratiche. Uno Stato più snello e, proprio per questo, più efficiente. Forte di procedure decisionali in grado di operare con tempestività a difesa degli interessi generali.

Le forme in cui questi processi si esprimeranno sono ancora un'incognita. Le dovremo definire con pragmatismo sulla base dell'evoluzione effettiva della crisi. Stando attenti alle decisioni che non solo noi, come nazione, siamo chiamati a prendere. E' un terreno vergine quello su cui siamo chiamati ad operare. Dove non esistono soluzioni precostituite. Peraltro, pragmatismo non significa improvvisazione. Presuppone al contrario una sedimentazione culturale e programmatica accumulata nel tempo. Questa è la bussola che ci consente di individuare – come diceva il vecchio Marx – "la logica specifica dell'oggetto specifico". Se non c'è questo retroterra, ogni gatto sembrerebbe bigio. E le soluzioni indicate risulterebbero irrilevanti.

La vera variabile

Ci riusciremo? Molto dipenderà dalla politica, che è la vera variabile di questa crisi. Alcuni si erano illusi che senza di essa il mondo sarebbe andato meglio. Un maggior benessere, seppure costruito sul debito. La costruzione di un'Europa monetaria, senza il suo coté istituzionale. Il finanziamento dell'economia internazionale affidato ai semplici meccanismi di mercato. La crisi ha distrutto, in un attimo, queste illusioni. Ed ora il fantasma della "complessità", che è la caratteristica tipica della politica, torna ad agitare i sonni di ogni statista. Ma noi – noi repubblicani – di questo non abbiamo paura. Anzi lo consideriamo un momento importante che, se saremo all'altezza della nostra tradizione, ci consentirà di uscire non dalle nostre contraddizioni, ma di quelle di un sistema politico che sta mostrando tutta la sua fragilità e inadeguatezza.

La nostra forza

Qual è la nostra forza? Sta innanzitutto nel nostro giacimento culturale. Non parlo solo del fatto che siamo il partito più antico della storia italiana. Che comunque qualcosa significa. Ma del ruolo che esso ha svolto in quella più recente a partire dalla Costituente. Lo ha potuto svolgere perché era chiaro, ai repubblicani, che cosa significasse la categoria della "complessità". Quando la sinistra divideva il mondo tra operai e padroni, noi sottolineavamo il peso e l'importanza della classe media. Quando il sindacato difendeva, in modo corporativo, i lavoratori, noi indicavamo nei disoccupati e nei giovani i soggetti degni di altrettanta tutela. Quando il dossettismo pensava di risolvere le contraddizioni italiane addossandole alla finanza pubblica, noi difendevamo il rigore e la buona amministrazione. Quando i liberal ci invitavano al consumismo esterofilo, noi rispondevamo con la politica dei redditi ed il richiamo alle condizioni del Mezzogiorno.

Per noi la complessità è stata sempre la sintesi tra la natura dei problemi da affrontare ed il consenso politico necessario per approntare le soluzioni possibili. Un compromesso, certamente, ma non una semplice mediazione, non l'accordo a tutti i costi a prescindere dai relativi contenuti: deriva, quest'ultima, che purtroppo ha caratterizzato questa nostra seconda repubblica. Ma oggi – noi diciamo per fortuna – per alcuni versi si comincia a tornare all'antico. Non sarà più un concorso di bellezza a scegliere quei dirigenti che dovranno gestire i futuri passaggi dell'economia e della società italiana. Avremo sempre più bisogno di saperi ed intelligenze che hanno qualcosa da dire per contribuire alla soluzione dei problemi. In altri termini, per essere meno vaghi, la semplice comunicazione non potrà sostituire ogni altra cosa.

Fine di un ciclo

Questo è l'orizzonte strategico all'interno del quale dobbiamo collocare la nostra azione. E' realistico tutto ciò? Naturalmente la crisi può evolvere anche in direzioni diverse. Può dar luogo a derive di carattere populiste, nelle quali l'accumulo di saperi e di esperienze risulterebbe irrilevante. Può essere, ma è poco probabile. Siamo alla fase terminale di un ciclo in cui lo spontaneismo economico, nella sua fase trionfante, emarginava ogni altro ingrediente. Le probabilità giocano pertanto a nostro favore. E noi dobbiamo coglierle, nel momento in cui diverranno carta sonante.

Se la nostra analisi è giusta, con questi problemi dovranno confrontarsi tutte le forze politiche italiane. Si dovranno confrontare il Popolo della libertà e le sue diverse componenti. Il relativo travaglio è già evidente, anche se poco appariscente. Investe i vertici di governo e le strutture dei partiti. Ci si illude se si pensa che un nuovo soggetto politico possa sorgere con un semplice atto notarile. Sarebbe un evento straordinario che, almeno finora, non ha trovato riscontro in nessun paese del mondo. Ma il riallineamento – uso questo termine in senso tecnico – non può avvenire nemmeno attraverso una "fusione fredda", come vorrebbero i vertici del Pd. In entrambi i casi si viola la logica della "complessità", quindi la logica profonda della politica stessa. Ed allora? Si tratta di espedienti che hanno, tuttavia, una loro importanza. Sono momenti di incubazione destinati ad attivare percorsi più complessi ed ancora difficilmente decifrabili. Che la crisi, inevitabilmente, accelererà. Si pensi al caso di Gordon Brown. Sembrava politicamente finito ed invece è, come Lazzaro, improvvisamente risorto. Quindi nulla è scontato e definitivo. "Non sumus sub rege", dicevano gli antichi romani: il processo appena avviato può avere esiti tutt'altro che scontati.

Dentro il processo

Noi dobbiamo essere dentro questi processi. E dobbiamo esserci con la nostra storia, la nostra autonomia, il nostro profilo culturale e programmatico. Lo dico non perché sono innamorato del nostro simbolo, che tuttavia non ha alcunché da invidiare. Ma come conseguenza logica del ragionamento che ho cercato di sviluppare. Se la "complessità" ritorna in campo come grande risorsa per risolvere i problemi del Paese, come si può fare a meno di un partito che su questo versante ha costruito interamente il suo profilo? E grazie ad esso gli ha consentito di poter dialogare, anche nei momenti più difficili, con tutte le forze in campo. E di sedere sempre a capotavola, come diceva Francesco Compagna.

L'intelligenza che dobbiamo dimostrare è quella di non farci irretire in formule organizzative che non hanno valore alcuno. Che fanno parte più del mondo della comunicazione che non della sostanza reale. E che quindi appartengono ancora al vecchio mondo e non a quello che la crisi sta facendo sbocciare. Non farci irretire, ma nemmeno isolare. Accettare, pertanto, il gioco organizzativo, ma alzando il nostro profilo di partito di cerniera che dialoga a tutto campo: con la maggioranza, ma anche con l'opposizione, in quella mediazione tra ricerca del consenso e prospettazione delle soluzioni reali che sono tipiche del mondo della "complessità". Dobbiamo, quindi, avere fiducia innanzitutto nelle nostre capacità. Essere consapevoli del fatto che questo patrimonio - ideale, politico e culturale - non è solo il retaggio di una storia di partito. E' invece una componente essenziale della storia nazionale. Di cui il Paese ha bisogno per uscire dalla crisi.